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Recensione “Roma” di Alfonso Cuarón

“Roma”, il film di Cuarón che prende il nome da un quartiere di Città del Messico, è un’opera che rimanda a certa epicità del cinema rosselliniano (penso proprio a “Roma città aperta”), viscontiano (il rimando è a “La terra trema” e alla poetica dei “Vinti”) e pasoliniano (il “cinema poetico”). Sono suggestioni suggeritemi dall’essenza tragica che intesse e caratterizza la trama dell’opera, a dispetto dell’apparente distanza che separa temporalmente e geograficamente (e, per certi aspetti, esteticamente) “Roma” dai lavori di questi grandi maestri. L’ultimo film di Cuarón, pur essendo ambientato nel 1971, all’epoca del “Massacro del Corpus Christi”, ha il grande pregio d’essere, al pari delle opere su citate, cinema del “presente”, “lingua scritta della realtà”; è insomma una sorta di appassionante trattato “verista” sulla natura del mezzo filmico. Questa riflessione sul cinema, Cuarón la ambienta e consegna alla sua infanzia messicana, in un viaggio della memoria che conferisce “pathos” e vitalità all’impianto teorico del film. Si rimane dunque estasiati con gli occhi, con la mente e col cuore, ogni scena è un meraviglioso affresco curato fin nel più recondito dettaglio, tutto è cesellato con chirurgica precisione e al contempo pulsante di cruda passione, di vita e morte, di orrore e sacralità. Cleo, la domestica di una borghese famiglia messicana, è la donna di ogni ritratto di Gauguin, è l’argine universale alla lacerazione di ogni interno-esterno e vive su di sé il dramma del nefasto parto assorbendo le fratture di altri interni-esterni: il tradimento del marito della padrona di casa Sofia (il Privato) e i massacri degli studenti di “El Halconazo” (il Pubblico), nella sublimazione dell’indifferenza dell’occasionale partner che ritroverà poi, simbolicamente, nella scena che causerà la tragica crisi pre parto. E l’acqua è l’elemento alchemico dell’opera, come annunciato fin dai titoli di testa, mentre Cleo è l’argine contro ogni esondazione (didascalicamente salva i figli di Sofia dall’annegamento in mare pur non sapendo nuotare), è il simbolo che tiene insieme – in chiave paradigmatica – l’intero tessuto della società messicana; in un certo senso, è l’ancestrale madre che testimonia del Bene e della misericordia dei Vinti. Occulta, dunque, riecheggia la lezione – nell’uso di certa simbologia, come nel caso della tazza rotta durante il brindisi di Capodanno che preconizza l’infausta natalità – del cinema jodorowskiano e perfino di quello di Kim Ki-Duk. “Roma” di Cuarón è, a mio avviso, cinema civile dai tratti surreali (non certamente in senso “bunuelliano”, ma si pensi alla scena dell’incendio nella fazenda), ma al contempo anche opera intima e poetica, appunto, d’ispirazione pasoliniana, pregna d’un senso dell’ineluttabile, d’una passionalità amara che non lenisce, né sutura le ferite aperte. E’ cinema di denuncia, anti individualista, che relega gli squarci d’orrore sullo sfondo di un affresco domestico, dove è il Microcosmo a deflagrare sulle geografie del Macrocosmo, come nelle storie di Accattone e Mamma Roma e dei Malavoglia.
Roma è un film del 2018 scritto e diretto da Alfonso Cuarón, vincitore del Leone d’oro alla 75ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

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