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Midsommar – Il villaggio dei dannati il nuovo film di Ari Aster.

Dopo lo stupendo “Hereditary” del 2018, Ari Aster regala una perla di straordinaria bellezza; di più, ci offre un disarmante saggio antropologico in grado di riconnetterci con le nostre più ancestrali pulsioni. Tra atmosfere à la “Pic-nic a Handing Rock”, contenuti prossimi alla filosofia del Lars Von Trier di “Dogville” e “Antichrist” (il concetto di sacrificio), “Midsommar” si rivela innanzitutto come un capolavoro registico di rara bellezza visiva.
Nella divampante luce delle giornate estive svedesi, Ari Aster porta alle estreme conseguenze il concetto di “paura folkloristica”, rendendo l’abbacinante diurno, teatro d’una ritualità iniziatica e di un orrore tutto antropomorfo. A voler analizzare bene l’opera, occorrerebbero una miriade di saggi e tomi, magari commentati da uno Zizek col suo inglese maccheronico a fare la voce fuori campo, tanti sono i rimandi e gli addentellati con la mitologia e il simbolismo delle culture nord europee.
Sull’ara sacrificale sta, a mio modesto avviso, l’antropologia occidentale, espressa dalle velleità conoscitive e dalle manie documentaristiche dei giovani “ospiti”, che verranno neutralizzate dallo spaventoso conclamarsi del Tremendo, ossia della sacralità nella sua forma più pura ed essenziale, espressa dai precetti osservati all’interno della comunità di “Harga”

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Il contatto dell’”homo sacer” col proprio alter ego ancestrale, rende esperibile il “sacrificio” tramite una pratica iniziatica che lo renderà “sacrificabile” in ragione di un processo di divinazione che prevede tutta una serie di pratiche durante i nove giorni del rito (“Midsommar”), processo che prende origine dal trauma tenebroso vissuto dalla futura principessa di Harga, e che porterà Dani alla liberazione catartica passando dalle tenebre della disperazione alla luce della consapevolezza.
L’Altro è il “sacrificabile” per i membri della comunità, nel maggio che è il mese dell’elezione della regina, di raccolta delle messi, del risveglio primaverile della Natura, dei “Ludi Florealis”, dei riti orgiastici propiziatori, di uno degli otto “sabbat” della “Wicca”, della festività di “Beltain”, dell’accoppiamento del Dio con la Dea, ecc.. Inoltre “Midsommar” è il frutto di uno studio pregevole sul concetto di solitudine, in cui si mostra come un tempo fosse possibile esorcizzare la paura e il panico (memorabile la scena delle urla di Dani che diventano le urla di tutte le altre donne), depotenziare l’angoscia e il dolore tramite pratiche collettive e processi simbiotici.
Tecnicamente il film di Ari Aster non è affatto un “horror”, giacché il ritmo lento e inesorabile della pellicola rimanda più a certe opere di Herzog che alle dinamiche proprie del genere, anzi, pare figlio di un’inchiesta documentaristica sulle ritualità ancestrali vichinghe.
Ricorderemo per sempre il ghigno di Dani, che simboleggia la gioia dell’essere liberato da ogni costrizione morale, etica e sociale, per un finale di film che potremmo definire splendido.
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