Home Approfondimenti Dal duello alla shitstorm, analisi di una pratica abolita secondo Roberto Disma

Dal duello alla shitstorm, analisi di una pratica abolita secondo Roberto Disma

I leoni da tastiera sono una triste componente dell’era digitale: spesso si nascondono dietro profili falsi, convinti di non poter essere rintracciati e di poter sfuggire alle conseguenze legali quando violano le leggi con diffamazioni, minacce e altre forme di violenza. Il fenomeno della shitstorm è logico: gli insicuri, i frustrati e i codardi contengono lo sfogo dell’aggressività per paura, finché non sono incoraggiati da una garanzia di anonimato o da un folto gruppo di simili; è il fenomeno del branco, insomma, che nasce nello stesso principio del bullismo. Come i bulli, i leoni da tastiera generalizzano e minimizzano le conseguenze delle loro azioni, dando sfogo a una vera e propria perversione da cui sfocia una delle forme più tristi della cattiveria, perché in questo caso l’empietà è proporzionale alla vigliaccheria.

 

Perché l’uomo tende all’aggressività? Se si analizza la tendenza etimologicamente e senza sovrastrutture, deriva dal latino adgreditor e significa letteralmente “avvicinarsi”; è un comportamento attivo, dinamico, indipendente e volontario. Inoltre, anche se al giorno d’oggi vige il paradosso di criminalizzare – anche violentemente! – ogni atteggiamento potenzialmente pericoloso per il prossimo, l’aggressività è una componente necessaria e inscindibile dalla natura umana. Ecco perché persino l’opposizione più pacifica dà sfogo all’aggressività come in un rapporto di causa effetto. In una dichiarazione non troppo famosa, Gandhi sostenne che è meglio essere violenti se c’è violenza nel nostro cuore, piuttosto che coprire l’impotenza col mantello della non violenza. La violenza è una conseguenza evitabile e condannabile dell’aggressività, ma in caso di difesa dipende esclusivamente dal contesto e dall’indole dell’individuo.
Per limitare questa conseguenza, dalla notte dei tempi, è stata tacitamente istituita una pratica che oggigiorno appare controversa e immorale: il duello. Momento epico e romantico di libri e film, soluzione ricorrente tra condottieri per evitare spargimenti di sangue tra gli eserciti in caso di guerra, conclusione di relazioni clandestine e culmine nella difesa dell’orgoglio tra adulteri e coniugi, nonché metodo elegante per risolvere potenziali schermaglie da locanda, è importante analizzare questo fenomeno ormai largamente in disuso. Il duello si appellava al senso dell’onore e imponeva delle regole ben precise affinché il rapporto tra i duellanti fosse il più paritario possibile, ecco perché gli scritti più antichi ricorrono al duello per narrare scontri impari. La Bibbia racconta come un pastorello di nome Davide possa uccidere un gigante come Golia; se non fosse un duello, probabilmente, Davide non sarebbe preparato allo scontro e Golia lo schiaccerebbe con facilità. Allo stesso modo, il mito racconta come un semidio di nome Eracle possa uccidere Anteo, un gigante che trae energia e forza costante al contatto con il suolo e pertanto invincibile; dato il contesto del duello, Eracle può usare la sua forza per sollevare Anteo da terra, renderlo vulnerabile e ucciderlo, secondo alcune fonti soffocandolo e secondo altre colpendolo con la clava.

 

Nella realtà, come ogni cosa, dipende molto dall’abilità e dalla familiarità con la pratica, oggetto di un vero e proprio allenamento; così come la dialettica, in fondo, e non è un caso che anche questa pratica sia quasi del tutto scomparsa e completamente svalutata. Infatti, è ipotizzabile che il duello e la dialettica siano strettamente connessi nella loro esistenza; l’arte del parlar bene e saper esporre le proprie opinioni con criterio impedisce fraintendimenti e, in base alla bravura del soggetto, può annullare ogni ulteriore scontro. Non solo: a meno che non si giunga alle offese personali, è difficile che sorgano i presupposti della giustificazione sociale del duello.

 

Nella Storia, la pratica è sempre stata influenzata dalla considerazione dell’onore personale: il classismo sociale ha impedito per un lungo periodo che due individui provenienti da ceti differenti potessero sfidarsi e duellare. La differenza di ceto disponeva persino il metodo di sfida – dal classico e universale schiaffo col guanto al più rustico morso all’orecchio – e la convenzione delle armi solitamente adoperate: i più popolari ricorrevano al coltello – Cavalleria Rusticana di Giovanni Verga insegna – e quelli più nobiliari alla spada, per poi culminare tutti nella pistola. A proposito della spada, l’arma in uso è stata adattata sempre più all’abilità piuttosto che alla forza, sino agli spadini d’onore, e chi si trovava in situazione di netto svantaggio – come una salute cagionevole – poteva comunque delegare l’impegno a un rappresentante. Talvolta non era necessaria una delega, perché un uomo d’onore si impegnava a rappresentare la persona svantaggiata e umiliata di sua spontanea volontà. Per uomo d’onore, ovviamente, non si intende in termini mafiosi, anche se questa tendenza di entrare nel merito di terze parti e proteggerle è stato un alibi ricorrente e romantico per giustificare il potere della mafia, tutt’altro che onorevole.
Nel Seicento, il ricco possidente e scrittore milanese Francesco Birago veniva convocato con una certa frequenza per far da paciere nelle dispute tra nobili che rischiavano di sfociare in tragedia. Il suo impegno letterario fu sostanzialmente incentrato su trattati a proposito dell’onore e, per questa ragione, fu un punto di riferimento per Alessandro Manzoni nella narrazione inerente le vicissitudini di Lodovico ne I promessi sposi, sia per la lite con don Rodrigo che per il duello. Nel 1607, nella prima stampa del suo Discorsi Cavallereschi, Birago definì il duello un giudicio criminale cavalleresco per via degli usi sociali adottati nel tempo, dai cartelli di sfida per renderlo di pubblico dominio, ai padrini – o un “signore del campo”, talvolta – che ne garantissero la correttezza. L’attività da paciere di Birago appartiene a un contesto storico molto delicato; infatti, in occasione del Concilio di Trento (1563), il papa condannò alla scomunica imperatori e sovrani che avrebbero consentito ancora la pratica del duello. Nonostante il Granducato di Toscana fu tra i primi a seguire le disposizioni papali, il coevo criminalista toscano Pietro Cavalli affermò che i duelli continuarono. Infatti, la condanna dei vari regnanti consisteva nell’esilio; dunque, il duellante accettava di buon grado la pena, purché potesse continuare a risolvere la questione a fil di spada. Questa consuetudine testimonia uno sviluppo fondamentale della pratica, in cui il duello diventa sempre più una dimostrazione di voler difendere un’idea a costo di perdere la vita. Emblematico personaggio storico dell’epoca è Savinien Hercules Cyrano de Bergerac, autore libertino noto per l’abitudine di provocare ogni detentore di potere e artefice di ingiustizie sia in versi che con la spada, di non aver mai perso un duello e di declamare versi denigratori durante i combattimenti; è divenuto immortale protagonista teatrale del Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand.

 

Successivamente, prese piede il compromesso del “duello al primo sangue”, ossia un duello da interrompere alla prima ferita inferta, ed è chiaro che spesso anche la prima ferita poteva rivelarsi mortale, come nel caso del duello alla pistola avvenuto a Milano il 7 giugno 1875 tra il marito e l’amante della scrittrice fiorentina Evelina Cattermole, conosciuta anche con lo pseudonimo di contessa Lara. Tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo c’era anche chi disprezzava la pratica del duello sebbene avvezzo a scontri verbali ricchi di provocazioni e offese, come gli scrittori Mario Rapisardi e Giosuè Carducci, protagonisti di un lungo e agguerrito scontro letterario ed epistolare in cui il primo scrisse in una lettera che, considerando le sue precarie condizioni di salute, non se la sentiva di recarsi a Milano neanche per schiaffeggiarlo. Al contrario, c’era chi amava i duelli e ne ricorreva molto spesso, come Benito Mussolini. Nel 1915, il futuro dittatore e il socialista Claudio Treves pubblicarono una serie di articoli in cui si accusarono reciprocamente d’incompetenza, finché Treves non gli diede del demagogo, Mussolini rispose con offese ancora più pesanti e Treves lo sfidò in un duello alla sciabola che durò quasi mezz’ora e fu interrotto solo dai padrini; i due rifiutarono di riconciliarsi, lasciando il luogo dello scontro con le rispettive ferite e considerazioni contrastanti. Questo episodio dimostra come, all’epoca, il duello non rappresenta più la dimostrazione dell’essere disposti a tutto pur di difendere un’idea. Infatti, con l’introduzione del primo sangue, la vittoria o la sconfitta perdono ogni valore se non per tratti di futile machismo; dunque, il duello diventa solo una dimostrazione di coraggio e d’onore in cui l’uomo è disposto a ferirsi e rischiare la vita per i suoi principi, le sue dichiarazioni e la sua dignità. Non si tratta più di difendere il principio in sé, bensì la dignità del principio stesso e di chi lo sostiene con l’accostamento di un’azione concreta; dal punto di vista esoterico, è l’ennesimo stimolo alchemico dell’uomo di tramutare l’idea in azione, paragonando l’importanza del principio al rischio della propria incolumità fisica.

 

Per ironia della sorte, a vietare completamente il duello in Italia fu proprio il fascismo con il Codice Rocco, il nuovo codice penale, ma non c’è da stupirsi se si considera che l’ascesa del fascismo fu determinata dalla prepotenza dello squadrismo, socialmente analogo al bullismo, agli odierni leoni da tastiera e ad ogni altro concetto di branco. A fronte delle umiliazioni subite, se la vittima avesse potuto sfidare e misurarsi con un singolo squadrista, probabilmente avrebbe avuto la meglio proprio per la codardia tipica di chi si muove in branco e si illude di poterla nascondere in un’azione di gruppo. Tra l’altro, il fenomeno del branco è fortemente penalizzato dalla pratica del duello perché, in una società che consente lo scontro fisico alla pari, un’azione di gruppo dimostrerebbe esattamente ciò che i suoi componenti vogliono nascondere: la codardia, appunto.
Al giorno d’oggi, la società ha impedito la possibilità di scontrarsi fisicamente e nulla ha rimpiazzato il duello, contribuendo involontariamente a uno svilimento del linguaggio e della responsabilità nelle proprie azioni e dichiarazioni, incoraggiando incoscienti e meschini metodi di schermaglia verbale anche sui soggetti più indifesi. Ecco perché ignorare il fenomeno del branco non è la soluzione, lo insegna la Storia; allo stesso modo, tornare a infliggere colpi di spada, di pistola o di coltello non è moralmente accettato. Tuttavia, se nascesse la tendenza di prenotare un ring e praticare un incontro di pugilato per stemperare gli animi, forse la massa tornerebbe a comprendere quanto sia sbagliata e grave la violenza. È un paradosso, come il predatore che garantisce con la sua caccia un equilibrio alla vita del pianeta, ma per quanto l’essere umano tenda a dimenticarsene, è anch’egli parte della natura.
Non me ne frega niente se anch’io sono sbagliato,
Spiacere è il mio piacere, io amo esser odiato,
Coi furbi e i prepotenti da sempre mi balocco
E al fin della licenza io non perdono e tocco.
(F. Guccini, Cyrano, dall’album D’amore di morte e di altre sciocchezze, 1996)

 

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